La situazione di rischio nella Città di Bari,dovuta alla presenza di una fonte di grave inquinamento ambientale quale il sito fibronit , nel corso del tempo non è stata percepita da chi doveva e poteva evitarne la dispersione delle fibre facendone una sorta di “Sacrario ambientale”.
La sensibilità di un giovane scrittore, Mario Desiati, in quest’articolo del 2004, pubblicato dal quotidiano “la Repubblica” percepisce la pericolosità degli effetti patologici dell’amianto facendo proprie le sensazioni che le persone coinvolte nella malattia provano nel momento della lotta contro l’asbestosi ed il mesotelioma pleurico , immaginando una bonifica che tarda ad arrivare auspicando la scomparsa delle malattie asbesto correlate e la costruzione di un parco che faccia rinascere il luogo :
Era soltanto una fila di capannoni grigi, con le pareti alte simili a quelle delle rimesse per autotreni, le facciate pentagonali incutevano nell’ aria quell’ idea di perfezione geometrica, senso dello spazio post-moderno e “architettura della rinnovazione”. Lungo il corso del tempo si erano fatte consistenti le misteriose morti per asbestosi e mesotelioma pleurico. Cadevano come mosche. Prima una manciata di persone, un caso raro, ma poi quella manciata divenne una dozzina e poi divennero centinaia. Il mostro di pentagoni e calcestruzzo si stagliava sulla cortina di una strada vuota, che dopo le sette di sera in inverno diventava la pista di bulli e pazzi scatenati.
Le studentesse del Politecnico non uscivano di casa per non fare brutti incontri e grandi cani sorvegliavano i condomini a ridosso della fabbrica. Ma quella fabbrica morì prima di tante altre morti strane e misteriose. Crisi economica, fine del ciclo produttivo, inutilità delle risorse, nuove prospettive di mercato, procedimento fallimentare, liquidatore e altre parole difficili. La fabbrica produceva cemento amianto, pulsava in quel centro periferico della città come una sanguisuga agonizzante. Succhiava sangue e restituiva vuoto mortifero. Ma la fabbrica morta non cessò di inquinare, anzi da morta divenne ulteriormente pericolosa e mortale, la sua carcassa non fu sepolta in una perentoria bara di cemento, ma imputridì sotto il cielo arrugginito delle primavere baresi, la sua lenta dipartita non fu accompagnata da nessun cattivo odore, ma come tutte le cose peggiori e come la morte stessa, nulla arrivava con il preavviso. La nausea e i capogiri di chi si curava con il cisplatino per non darla vinta a quella mostruosa carogna industriale era la piccola-grande Resistenza della città di Bari. Chi parla di vittorie, resistere è tutto, diceva quel disilluso di Reiner Maria Rilke. E il cisplatino è resistenza. è una cura che conoscono bene anche tanti tarantini, tutta quella gente che vivendo a Tamburi si è ammalata ai polmoni e adesso convive con la lotta disperata per sopravvivere. Ma torna alla carcassa. C’ era lo sfondo di una città operosa e un po’ incosciente che viveva respirando particole, fanghi, materiali di risulta, cemento amianto, fibre… appunto era Fibronit. Laddove c’ era tutto questo oggi c’ è un discreto prato fiorito, coltivano alti alberi di magnolia che in primavera profumano e fanno petali e polline. L’ odore si spande per i quartieri circostanti, la gente che si ammala di quelle brutte malattie impronunciabili è sempre meno, sempre di meno, quasi sparisce, e sparisce anche il cisplatino, si sente che a Via Caldarola in primavera l’ aria è dolce di quelle magnolie scoppiate per terra con le api che sono tornate dentro la città e non si vedevano da almeno quattro lustri. Hanno bonificato quel grande tumore di amianto che assorbiva dentro di sé una parte sana della città. Quel tumore è stato rimarginato, come un miracolo piuttosto che come un’ operazione chirurgica. A volte è questione di volontà, di forza di volontà, vale solo quella e per quello che oggi lì ci sono i fiori e c’ è la vita. Vorrei raccontare tutto questo, vorrei raccontare di una città che ha iniziato a fare i conti duramente e seriamente con il concetto di archeologia industriale e riqualificazione ambientale (molto più che urbana). Vorrei raccontare del capitolo triste, ma ampiamente chiuso della Fibronit. Invece quel capitolo è ancora aperto. Tragicamente aperto. Tutto questo ancora non c’ è stato, ma che ha la speranza di esserci dopo la sentenza del giudice unico di Bari che pochi giorni fa ha condannato i primi responsabili della fabbrica di morte. Eppure sono ancora scosso. Spaventato, con gli occhi sgranati ogni volta che sento parlare della Fibronit. Fabbricone dismesso e poi bonificato a capocchia. Non riesco a descrivere lo stato d’ animo con cui oggi, estate 2004 seguo la vicenda Fibronit. è uno stato d’ animo di incredulità e stupore, quello di chi ha abitato per alcuni anni a poche centinaia di metri dalla fabbrica della morte per eccellenza nel territorio barese e che in fin dei conti non ha mai saputo molto. Disincanto e incoscienza per chi ha vissuto due anni e mezzo in Via De Deo, una delle ultime traverse di Via Lattanzio, confine della “zona rossa Fibronit”, come tutti gli studenti fuori sede non troppo in centro per risparmiare qualche lira, ma neanche troppo in periferia giusto per non essere troppo lontano dalla Feltrinelli vecchia di Via Dante e la Ricordi di Via Sparano. Dunque il mondo. Con il mio amico Alberto andavo spesso in via Caldarola, nella casa di una nostra compagna di liceo, dentro quella strada deserta e polverosa ci camminavamo addosso con la strizza di dover fare i conti con qualche scoppiato che puntualmente ci chiedeva spiccioli e sigarette (rigorosamente all’ ora di cena). Si andava a giocare a calcio dietro il ponte di Via Amendola e sfottere un tizio che si segava davanti al “Salottino”, si spendevano i soldi dei nostri genitori alla carambola e le birre pisciate del Cinese di Via Capruzzi. Per quei stranissimi anni universitari ho vissuto in piena “zona rossa” senza mai sapere nulla, senza sospettare che razza di bomba era innescata a pochi metri da dove vivevo. Credevo che quei capannoni fossero rimesse in disuso e basta, ignoravo perfettamente, “sopravvivevo” nel mondo di chi non si pone interrogativi, con l’ incosciente sicurezza di chi non ha nulla da chiedere. Eppure quei suoli contenevano e contengono qualcosa come settantamila metri cubi di materiali e scorie in fibrocemento amianto, roba tra l’ altro in pessimo stato di conservazione. Senza dimenticare le grandi quantità di oli esausti altamente pericolosi per l’ ambiente e le falde. Il tutto era ed è lì a due metri e mezzo sotto terra. In più c’ erano e ci sono cinquemila metri quadrati di tetti in amianto, polveri di lavorazione sotto i capannoni ed altri residui di materiali. Di tutto questo tanta gente sapeva pochissimo, i media erano ancora cauti nonostante quella fabbrica avesse chiuso i battenti nel 1986. I politici ancora di più. Qualcuno ha parlato di clima omertoso per l’ emergenza amianto a Bari. Ne sentii parlare per la prima volta dentro un treno della ferrovia Sud-est, lo presi a volo mentre trafilato arrivavo col borsone nella stazione SE, c’ era un’ aria brutta, con una tramontana rigida, un pendolare magro con gli occhi un po’ fuori e la testa glabra con quasi noncuranza mi gelò il sangue, “sai che quando c’ è questo forte vento, questo è un vento di morte ?”. Il perché e percome me lo raccontò in poche parole, la vicenda di un pendolare che tutti i giorni guardava dal finestrino il mostro in fibracemento svettante nel suo orizzonte quotidiano. Poi vennero i giornali locali che davano con i grandi quotidiani nazionali, che forse Bari era diventata una città ancora più importante, si parlava sempre di più di argomenti tabù, finalmente si potevano dire anche le cose che prima non si potevano dire. Iniziarono le inchieste della magistratura (e oggi le prime condanne), iniziai a sentir parlare del cisplatino, della gente che lo usava anche a Bari come a Taranto. Che quella era resistenza, senza vittorie per adesso, ma sempre resistere.
Mario Desiati
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